Io era tra color che son sospesi…

 
Un giorno di tanti anni fa (non saprei dire di preciso quanti, ma ero abbastanza piccolo), mio padre mi regalò una bicicletta. Era il mio compleanno, credo.

Fu un atto temerario da parte di papà, data la mia scarsa "agilità" in qualsivoglia attività sportiva. Aveva impiegato veramente tanto ad insegnarmi, ed io ero il peggiore degli allievi, perché davvero non avevo nessuna intenzione di imparare; tuttavia lui ne aveva fatto un punto d’onore: ricordo con orrore i pomeriggi passati a cercare di stare in piedi su quel trabbiccolo pericolosamente instabile. Ma imparai: non lo ringarzierò mai abbastanza per aver perseverato.

Quella bicicletta venne qualche anno dopo, e mi ricordo che la trovai bellissima. Onestamente il colore non era il mio preferito, ma era mia, e questo faceva la differenza. Era il riconoscimento del fatto che avevo imparato. Ero capace da solo, con le mie gambe. Gialla e bianca com’era, i miei genitori le avevano messo una grossa coccarda rossa intorno alla canna, che io non mi sarei mai deciso a togliere.
Venne l’estate e noi (che a quel tempo avevamo una routine estiva fantastica che prevedeva montagna a luglio, campagna ad agosto e mare a settembre) ce ne andammo a Champoluc in vacanza. Il nome della frazione era Champlan, e la casa stava dopo una lunga discesa asfaltata che in fondo piegava a gomito verso destra, entrando nell’abitato. Ricordo che mi divertivo ad arrampicarmi fino in cima a questa discesa con la mia bici nuova fiammante e poi a lanciarmi giù a rotta di collo, inseguendo l’ebrezza della velocità (mi piacerebbe tornare a vedere quella strada, chissà com’è in realtà: a me allora sembrava ripidissima!); in fondo facevo la curva e sfruttavo l’abbrivio per non dover pedalare nel pezzo in piano fino a casa. Cento volte l’avrò fatto in due settimane. La centounesima volta, quella curva, non la feci. Dritto contro il muro: un gran bel colpo.
Me la cavai benissimo in realtà, straordinariamente illeso a parte un taglio sul ginocchio; per quanto riguarda la bicicletta, be’, è stata la prima e ultima ruota quadrata che io abbia mai visto. Non la usai più quell’estate, e dopo un po’ di tempo, mio padre la fece riparare. Vennero altre estati, vennero altre biciclette. Quella in particolare è ancora in campagna da me, così piccola, con la sua consumata coccarda rossa. Prende polvere nella stalla della Galotta, ma non nei miei ricordi. Vorrei aver conservato anche la ruota.

Passano gli anni, resto lo stesso.

Mi sono regalato un Erasmus. Ho deciso in piena coscienza, che sapevo stare sulle mie gambe. Che ero in grado, non solo, che avevo bisogno di andare.
Di fare da me.
Di guardare la mia vita da una diversa prospettiva.
Di allontanarmi per migliorare.
Di vedere le pecche che qui non riuscivo a mettere a fuoco.
Di sanarle, forse.

L’ho perseguito e l’ho perseguitato, perché proprio non voleva saperne di essere come lo volevo. Ho insistito e lo ho avuto: onestamente il colore non era il mio preferito, ma era mio, e questo faceva la differenza. Significava qualcosa, un viaggio dentro me stesso oltre che uno oltre le Alpi. Aveva la coccarda rossa.
Ed ero veramente pronto sapete, mi ero preparato bene: ricordo con soddisfazione le ore passate a equipaggiarmi, a lucidare gli schinieri e a rammendare la cotta, a sellare il cavallo. Tuttora non credo che sia tempo perso.
Ma anche questa volta, la mia corsa è stata interrotta quando ormai non potevo più fermarmi: già godevo il vento sulla pelle. Mi sentivo veloce, sulla bicicletta dei miei progetti.
Mi è venuto addosso un muro. O forse è più giusto dire che io sono andato addosso a lui. Oggi non sono in grado di dirlo.
Tra un po’ di anni, forse, anche questa discesa non mi sembrerà più così ripida.
E anche questa volta me la sono cavata benissimo in realtà, straordinariamente illeso a parte questo senso di amara impotenza che è una delle peggiori sensazioni che abbia mai provato. Però, ancora una volta, c’è una ruota quadrata: quella delle mie certezze, quella dei miei progetti. Sebbene sappia che verranno altre estati, e verranno altre biciclette.


Dante Alighieri, Commedia, Inferno, Canto II, v. 52-54.

Pubblicato in Vita | Lascia un commento

Il titolo è un suono di pioggia scrosciante. Tipo NEW AGE. Non lo so scrivere, vi prego di immaginarlo.

 
 
 
Diluvia.
 
C’era una bella conferenza stasera…mi piaceva l’idea di andarci. Storia dei Fieschi. Lo so che a voi non frega niente ma a me piaceva.
 
Ma                 diluvia.
 
Non ho avuto il coraggio di uscire a inzupparmi.
 
Perché           diluvia.
 
La verità è che è un periodo di stasi: parto tra 45 giorni suppergiù, e tento di speratamente di abituarmi all’idea; ormai sono mesi che c’è un inesorabile orologio dentro di me, un cucù che mi ricorda che parto, che manca sempre meno, che vivo la mia vita come se fosse tutto normale, ma non è vero.
Gandalf direbbe: "E’ il respiro profondo prima del balzo": cavolo se è profondo! 
 
Vorrei stare a casa di più (ci sto provando) per bere fino all’ultimo la mia famiglia.
Vorrei fermarmi a guardare ogni angolo della mia città per serbarla nei particolari.
Vorrei dire tante cose a tanti amici, vorrei mostrare loro le radici che hanno messo nel mio cuore.
 
Ma non RIESCO a stare a casa: sono a tappo. Ho sempre voglia di scappare fuori, lontano. Ho bisogno di una pausa. Invece di bere la mia famiglia, inghiottisco tensione.
Ma non VEDO veramente ciò che guardo. Io guardo i muri di Genova e prefiguro i muri di Lione. Io ascolto la gente parlare e penso che il francese suona diversamente.
Ma MI FERMO perché in fondo sono solo sei mesi, perché è solo che amo il dramma. Non ci sono frasi epiche da dire. Nessun addio da pronunciare. Non vivo in una tragedia di Shakespeare. 
 
Quindi invece di scappare fuori di casa, scappo dal salotto e mi rifugio in camera. Patetico e degno di una ragazzina quindicenne. E poi diciamolo, non serve a niente.
Quindi leggo la guida turistica di Lione (regalo quantomai azzeccato!), e cerco stampe della Genova del Quattrocento, e mi interessa la famiglia Fieschi. Non c’è niente di reale in tutto questo. Una città che "non esiste ancora" per me, o una città che non esiste quasi più. Eppure quella vera è lì fuori…ma è solo ambient.
Quindi macino una quantità di cose da dire ma non le dico. Vale la pena dirle, ma escono così maledettamente drammatiche! E io non so renderle normali, e quindi le tengo lì per non essere preso per visionario. Ma ve le vorrei dire: magari ve le scriverò.
 
 
Diluvia.
 
La pioggia ferma le cose, perché si muove lei. Il mondo la riceve fermando la sua corsa: tutto sembra più lento, a confronto con lei. Ogni cosa decelera fino anche a fermarsi. La pioggia….diluvia sul mondo. E io sto fermo con tutto il resto. E respiro profondamente, prima del balzo. E forse sto andando in iperventilazione perché mi sembra di vivere in una bolla di sapone…è tutto ovattato, a parte quell’orologio a cucù.
 
Diluvia.
 
Ma diluvia fuori, o diluvia dentro?
 
 
 
 
Adesso credo che leggerò la voce FIESCHI di Wikipedia
 
 
 
 
 
 
 
Pubblicato in Vita | 1 commento

Solo dentro questa zucca vuota, a lume di candela.

E’ dura essere un creatore di immagini. Il problema è che quando ne viene una in mente, finché non la dici o la scrivi lei non se ne va, e occupa spazio nella testa: e non lascia spazio ad altre immagini. Ronza come un moscone nella cervice finché non la si fa uscire. Allora e solo allora ne nascono di nuove. Ho capito perché Stephen King scrive così tanti romanzi (sovrumano c’è gente che dice che sicuramente mette il suo nome su libri altrui, peché li pubblica a ritmo forsennato). Probabilmente per scaricare l’immaginazione. Un colpo di gomma sul voglio e si ricomincia. Sebbene quel periodo che c’è tra un’immagine e l’altra, quando il foglio della fantasia è bianco, a volte sia molto piacevole, è un bene che duri poco. I costruttori di immagini vivono male senza i loro disegni, come ostriche senza perla.
 
La musica riempiva l’aria mentre la giostra girava lentamente su stessa. Seduto su una panchina appena ridipinta, la guardava muoversi. L’aria era pungente ma non freddissima e calava la sera: era il momento migliore della giornata, quello, per guardare la giostra, così luminosa, così festosa così colorata; così piena di gente: bambini, nonni, madri con le figlie, giovani padri, tutti prendevano parte al gioco. E giravano in tondo, senza fretta, nella melodia un po’ stereotipata che usciva dall’altoparlante. Ormai occupava tutto il suo campo visivo: era come se non esistesse altro per lui, che ogni sera si sedeva su quella panchina e stava a guardare. Tutto il giorno aspettava quel momento, non aveva altro. Dava un senso alla sua esistenza, e in qualche modo, a furia di guardarli girare, si sentiva parte di quel miracolo. Si sentiva vivo. Poi lentamente, tutti i giorni, la giostra si svuotava di gridolini estatici e di risate, la musica si fermava, ed egli restava solo nel giorno morente, su una panchina in un parco vuoto. Allora si alzava il bavero della giacca, e si allontanava nel buio.
Ma quel giorno era diverso. Si sentiva differente, come illuminato, nuovo; non sapeva spiagerselo: sapeva soltanto che se stendeva la mano davanti a sé, tra le dita poteva vedere i pali della giostra che ruotava, e i cavalli dipinti e i carri e le carrozze, ed erano così vicini! Che sensazione mai si provava a salire? In fondo era una questione di centimetri, bastava volerlo. Si alzò e si fece coraggio; rimase lì qualche minuto, come inebetito, stupito da sé stesso e dalla propria audacia. Stava davvero per farlo? Solo un giro, non chiedeva altro: sentirsi come tutte quelle persone incantate per un solo istante, sentirsi anch’egli parte della magia. D’improvviso allungò il braccio e si aggrappò all’asta di uno dei destrieri di legno vicino al bordo. Correva insieme al cavallo, era solo questione di montare sulla pedana, e issarsi in groppa. Issò il piede sinistro fece forza sulla pedana e si diede la spinta per salire…il piede scivolò sul metallo bagnato da una giornata intera di scarpe umide che lo avevano calpestato. Cadde all’indietro sulla ghiaia, restando impigliato al palo del cavallo solo perchè il risvolto nei pantaloni aveva incontrato un chiodo sporgente. Vedeva le luci sopra di sé mentre veniva trascinato per terra dal movimento della giostra ma non sentiva più niente: non un suono, non una voce. Poi si fece buio.
Si fece quasi un giro intero trascinato sulla ghiaia, prima che la giostra venisse fermata e che fosse chiamata un’ambulanza. La gente guardava la scena sconvolta: chi era quel tale venuto dal niente, che all’improvviso aveva cercato di montare sulla giostra in movimento? Chi aveva turbato con una tale sciocchezza tutti quei poveri bambini? Chi si era permesso di rompere l’incanto?
Non lo videro più per settimane. Lo stupore iniziale si fece ricordo spiacevole, poi memoria, e poi sbiadì fra la musica e le luci, fra un palafreno dipinto ed un cocchio principesco. Non si accorsero di lui quando tempo dopo, ricomparve sulla sua panchina; del resto non lo avevano mai notato neanche prima.
Non provò mai più ad avvicinarla, come se avesse capito che non c’era e non ci sarebbe mai stato posto per lui su quella giostra. "Riservato ai signori paganti", diceva il cartello a fianco alla cassa. Già perché c’era un cartello; e anche una cassa. Come aveva fatto a non vederli? Come credere che sarebbe bastato allungare la mano e fare un salto, per essere felici? 
 
 
 
Che Hallowe’en interessante, questo.
Pubblicato in Pensieri | 1 commento

Nuovo anno nuovo delirio

Che pianto…guardate e sclerate con me!
Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

Freno d’emergenza

FERMATE TUTTO!

Voglio scendere 

Pochi giorni fa, la cucina di casa di Fully.

IO (si parlava del più e del meno): "No, Fully, credo che non potrei sopportarlo: faccio già abbastanza fatica a mantenere un equilibrio vagamente stabile così, figurati un po’ se ci aggiungi anche questa!"

FULLY: "Ma cosa dici?! Tu instabile?! E che motivo hai d’essere instabile! Tu sei una persona serena e stabilissima!"

E così ho avuto la dimostrazione che ho fatto bene i miei compiti a casa : i miei sforzi per mantenermi allegro, simpatico, ciarliero e compagnia bella in quasi tutte le situazioni, anche e soprattutto quelle che mi fanno star male, sono andati a buon fine. Sono etichettato come quello stabile. Ottimo. Allora chiedetemi ancora qualcosa. Vedrete che ce la faccio. No, sul serio, tanto posso farmi carico di tutto, ho un equilibro emotivo di ferro. Cemento armato. Garantito contro i terremoti per i prossimi settant’anni. Sono anche sensibile e capisco la gente al volo, quindi perché no, sono quello giusto, per tutti.

Bene, me lo aveste detto sei mesi fa, sarei stato entusiasta, ma oggi ho altre notizie.

 La prima: non ce la faccio più a fare buon viso a cattivo gioco. Vorrei tanto, ci provo anche, ma mi rendo conto che mi logora: faccio troppa fatica e sono stanco. Perdo colpi. Mi prendo male. E mi dispiace cazzo! Ma ogni leva ha il suo punto di rottura, e il mio è tremendamente vicino. Quindi chiedo scusa in anticipo: prometto che continuerò a provare, ma non assicuro i risultati, quindi vi prego di perdonare i momenti di buio.

La seconda e ultima: grazie a Dio ho amici che mi comprendono (o ci provano, cosa per cui si sono conquistati per sempre il mio affetto), ma a tutti quelli che non lo fanno e si contentano di incasellarmi, di chiudermi in categorie, definizioni, semplificazioni, devo fare un annuncio: da oggi rinuncio alle etichette. Anzi le rigetto. Non sono come vi aspettate che sia. SONO, e basta. Se corrispondo al vostro Francesco ideale, tanto meglio. In caso contrario, non so più che farci.

Cordialmente vostro

FraMari

 

 

 

 

Pubblicato in Vita | Lascia un commento

Era anche ora

UN PO’ DI RESTYLING NON GUASTA MAI.

Dopo un anno di quel palloso verdino ho portato un po’ di colore a questo blog. Non sarà eccezionale ma se non altro è meglio di prima…

Pubblicato in Cazzate | 1 commento

Del modo in cui deve sentirsi una plancia da Risiko

 
 
Non ho mai amato la Solitudine. E’ lei che si è innamorata di me.
 
Credo di averla incontrata la prima volta in edicola, in piazza Solari. E sono sicuro che fosse un Mercoledì. Stavo comprando Topolino, vedete: quindi doveva essere Mercoledì. Io non mi ricordo di lei quel giorno, ha un viso talmente anonimo, la Solitudine, che passa inosservata; però lei deve avermi notato, forse anzi mi guardava da un po’: aveva bisogno che qualcuno le facesse compagnia, probabilmente: oserei dire che la solitudine ha il problema di sentirsi sempre sola. Il che è strano perché sono sicuro che conosce un sacco di gente, quindi non dovrebbe sentire la mancanza di compagnia…ma probabilmente è una specie di psicosi: gli amici non le bastano mai. Se conoscessi un bravo psichiatra ce la manderei. 
Sia come sia, le piacqui e prese a seguirmi. Ma non si fece vedere, si nascondeva tra gli ulivi davanti a scuola, e io non mi accorsi di lei: credo in realtà di non aver visto moltissime cose in quegli anni, Topolino era un meraviglioso schermo contro il mondo. Come un paio di occhiali molto scuri, le pagine Disney schermarono per me le fastidiose luci che mi colpivano gli occhi, e che erano il mondo reale: avevo un mondo a tinte pastello, e mi bastava. Che nido d’amore romantico per una luna di miele, dovette pensare lei! E io, pur ignaro della sua presenza, mi abituai alla sua compagnia, o a quei tempi direi più alle sue visite.
 
Quando mi accorsi di lei, potete immginare il mio orrore: la cacciai a male parole e le dissi che non volevo avere niente a che fare con lei, tornasse un po’ a casa sua! Rideva…non mi ero accorto delle manette di ferro che univano i nostri polsi: quella serpe doveva avermele messe mentre dormivo. La catena però era abbastanza lunga, e lei non è mai stata una forte nella corsa. Cercai di tenerla il più lontano possibile da me, anche se non potevo liberarmene. E cominciai a lentamente -mentre lei non vedeva- a consumare la catena con una lima da unghie che mi trovai in tasca (come ci fosse finita non chiedetemelo). Ci vollero anni, ma alla fine spezzai l’odioso anello che a lei mi teneva legato, e fuggii.
 
Ma non per questo lei ha rinunciato a seguirmi; in qualche modo sa sempre dove trovarmi, ovunque sia mi raggiunge, troppo spesso nel momento sbagliato. E’ gelosa marcia, sapete, mi fa delle scenate che non avete idea. Non riesco a togliermela di torno, e un po’ mi fa pena: piange tanto. Vorrei potermi scordare di lei. Ma in fondo è una delle sicurezze della mia vita, no? Mi è a fianco da sempre. E’ una morsa di ferro che mi stritola i polmoni, ma almeno è familiare…insomma mi ha fregato di nuovo, anche senza catena. E riuscita a infiltrarsi così in fondo al mio animo, che mi sembra di averla a fianco anche se non c’è. Ed effettivamente ormai c’è ben poco, è sicura di sé, può tormentare altri, tanto lo sa che io non scappo. E’ il substrato dei miei pensieri, ha invaso la mia coscienza, e ha piantato la sua bandiera sfilacciata sulla cima del mio cuore. Ci ha lasciato un carrarmatino marrone e poi si è partita per altri luoghi della mappa , sicura delle difese della sua roccaforte.
 
Spero che si sbagli. Spero che qualcuno glielo metta nel culo, che qualcun’altra cacci via la sua faccia scialba dalla mia memoria, bruci la sua deprimente bandiera e pianti al suo posto qualcosa di più brillante.
 
Spero che l’unica donna al mondo che si sia mai innamorata di me muoia di morte violenta, e spero accada presto. E spero che qualcuna mi presti un’arma per farla fuori di persona, perché sapete: con solo una lima per unghie non vado molto lontano.
Pubblicato in Vita | 2 commenti

Coup de Foudre

Domanda: perché la gente scrive sui muri? Cosa la spinge a lasciare indelebile segno del proprio passaggio sull’intonaco dei nostri palazzi, sui muretti lungo le strade, sui cassonetti della spazzatura?

Se parliamo delle semplici TAG (alcune molto belle peraltro, ci sono dei veri artisti in giro: non smetterò mai di ammirare il loro buon gusto) di cui ormai sono letteralmente costellate tutte le porzioni di muro disponibile in città, la risposta è senza dubbio: istinto animalesco. Hanno molto in comune con i cani, i nostri taggers, sono solo più eleganti: invece di pisciare negli angoli, per marcare il territorio firmano il muro. Sciò voialtri, qui son passato io.

Rivolgendo la nostra attenzione a scritte un po’ più "articolate", in realtà il discorso non è molto diverso: se Pinco Pallino scrive su un muro "Valeria sei una troia" piuttosto che "Cinzia ti amo", quello che vuole non è comunicare a una ragazza un sentimento che prova nei suoi confronti, ma comunicarlo a quante più persone può! Se al signor Pallino interessasse veramente qualcosa a Cinzia o Valeria, andrebbe semplicemente da loro e ci parlerebbe, oppure scriverebbe una lettera; se invece scrive quello che pensa sul muro, le possibilità sono sono due: o non ha le palle per andare e dire a quattr’occhi quello che pensa, o è affetto da una forma più o meno spiccata di esibizionismo.
Nel secondo caso, lo scopo di Pinco è farsi notare, saltare agli occhi della gente, anche a costo di calpestare i sentimenti delle povere Valeria e Cinzia, che avrebbero forse preferito restare nell’anonimato.

Ecco dunque: la scritta sul muro è un modo di dire al mondo:"IO ESISTO, CONSIDERATEMI".

Ora proviamo ad entrare più profondamente nella psicologia di Pinco Pallino, l’imbrattamuri. Si sdrai pure sul lettino, signor Pallino. Li tiri pure su i piedi, deve stare comodo, non si preoccupi che il lettino non si rovina. Bene, cominciamo….mi dica, cosa prova quando è solo con la sua bomboletta davanti a un muro per cosi dire "vergine"? Hmmm…euforia….vada avanti…sensazione di libertà e potere..interessante, quindi saprebbe dare una spiegazione a queste sue reazioni? Le sembra che supporre una loro dipendenza dalla consapevolezza di stare per fare qualcosa che verrà notato da migliaia di persone, sia corretto? Sì? Bene sono contento che sia d’accordo con me….e dunque si potrebbe anche dire che per lei non ha tanto importanza il testo delle sue "iscrizioni", quanto l’effetto che esso avrà sul lettore? No non mi fraintenda, non stavo insinuando che lei scriva cose a cui non crede o che per lei non sono importanti, stavo soltanto chiedendomi…ecco…se potesse scegliere tra due argomenti diversi -che le stanno a cuore, ben’inteso- di cui uno ritiene faccia più scalpore dell’altro, non sceglierebbe forse quest’ultimo, per la sua opera murale? Ci pensi bene…ecco vede che siamo sulla stessa lunghezza d’onda! Va da sé quindi che…ehm…signor Pallino prenda pure un fazzoletto se le cola il naso, sono lì a fianco…okay: meglio (per lei e per la pelle del mio lettino). Dicevo…sì, è logico dedurre da tutto ciò che più popolare diventasse una sua scritta, più lei si riterrebbe soddisfatto, giusto? Giusto…quindi se per assurdo lei suscitasse tanta rinomanza da ottenere un trafiletto su un quotidiano, come si comporterebbe? Per carità non si agiti così…tutto quest’entusiasmo per una banale congettura! Devo concludere che la cosa le farebbe piacere, vero? E probabilmente farebbe di tutto perché l’evento si ripetesse, giusto? Uhm…Cercherebbe di ottenere la prima pagina…signor Pallino lei mira in alto! Senta un po’, un’ultima domanda: secondo lei, non sarebbe possibile che, visto il successo da lei ottenuto, altri…ehm…scrittori parietali cercassero di emularla, magari nella speranza di ottenere i suoi stessi…onori? Lo ritiene probabile…capisco. Bene il nostro tempo per oggi è finito! Ci vediamo la settimana prossima, signor Pallino eh, stia bene mi raccomando e attento alla salute, con tutto il freddo che prende, là fuori di notte…arrivederci! Ah signor Pallino? Uscendo può gentilmente dire alla mia segretaria di far accomodare il signore con l’impermeabile? Sì sì lo so che ha solo l’impermeabile ma che ci vuol fare, siam qui per questo…ancora buongiorno, a presto!

Conosco un prete che ultimamente ha fatto carriera, un gran bravo prete a quanto ne so, pieno di qualità: deciso, colto, intelligente, gentile, sensibile e profondo, appassionato. Lo hanno eletto presidente di una assemblea di altri preti famosi e importanti, e insieme con loro ha buttato giù due paginette su un argomento di grande attualità in Italia, di cui anche giù a Roma si parla tanto, tra quei chiassosi signori che compongono la nostra classe politica. Del tutto legittimo, in uno stato come il nostro fondato sulla libertà di pensiero e di espressione, il parere di questi sacerdoti fa paura. Si teme che possa influenzare la scelta dei politici, che possa (come dire?) costringerli a cambiare idea, forzare loro la mano. Già perché i nostri politici fanno fatica a ricordarsi che sono uomini liberi in uno stato libero, che hanno una testa per pensare, che possono ascoltare tutte le campane e poi farsi un’idea propria e scegliere di conseguenza. Devono essere accompagnati per mano, in fondo che vuole, son ragazzi, van ben guidati finché non sanno reggersi sulle proprie gambe…Laicità dello stato: non è forse l’indipendenza del legislatore da ogni pastoia ideologica religiosa? Ebbene non ce l’hanno quest’indipendenza i nostri politici? Devono forse preoccuparsi dell’esistenza di un’etica religiosa, di un consiglio morale a chi crede? Non sanno scegliere in coscienza con la loro testa? E se vanno un po’ in crisi di coscienza, non sarà una buona cosa? Penseranno un po’ di più prima di votare, il che diciamocelo non guasterebbe!

A causa di questo timore imperante, qualcuno settimane fa ha espresso SUI MURI il proprio pensiero sul nostro prete, cosa che ohibò, ha fatto sollevare l’opinione pubblica, perché son cose che non si fanno, non sta bene a un uomo di Dio (come se prima non si fosse soffiato sul fuoco per giorni). E zac! La stampa c’è andata a nozze…colpo di fulmine, è stato amore a prima vista, ma non tra il potere ecclesiastico forte e gli imbrattamuri idealisti, bensì tra questi ultimi e le testate giornalistiche: è stato tutto un crescendo di botte e risposte a colpi di vernice e inchiostro, dalle terze pagine dei quotidiani cittadini alla prima delle testate nazionali, dalle scritte "Vergogna!" sulle porte ai proiettili in raccomandata espresso! E’ un affare, un businness grosso come una casa per i giornali, che vendono più che con gli stupri di gruppo, e una bella occasione per quei megalomani che non conoscono che questa misera forma di contestazione per mettersi in mostra. Nel complesso, uno schifo: schifo quei poppanti dei nostri politici, pavidi e condizionati; schifo questa Chiesa così lenta ad adeguarsi ai tempi, non nei contenuti ma nei modi di comunicazione: così in difficoltà a farsi capire; schifo questa contestazione polemica invece che costruttiva, per di più vigliacca perché anonima: cazzo vuoi dimostrare coi bossoli di pallottola? E infine schifo i muri delle nostre belle città rovinati.

P.s.: Strano ma vero sotto casa mia qualcuno ha scritto "Abbasso Prodi, viva Ruini", ma nessuno sembra farci caso….

Pubblicato in Opinioni | Lascia un commento

Filo e Melassa

La mia anima abita il mio corpo. Fin qui tutto regolare: è padrona assoluta di ognuna delle mie
cellule nervose, muscolari, ossee o epiteliali, risiede in ogni singolo globulo rosso, in tutti i linfociti. Scorre attraverso le mie vene e i miei vasi linfatici, percorre i miei nervi insieme agli impulsi elettrici. E vi posso assicurare che si trova benissimo, sta come un pascià; d’altronde sono arredato con gusto e la terrazza panoramica offre una vista a quasi 180 gradi sul mondo, senza contare che nessuno sta mai bene come a casa propria…e la mia anima è nata qui 19 e rotti anni fa, e non ha mai dato segno di volersi trasferire (anche se mi risulta che Lassù concedano ad ogni anima un trasloco solo, per motivi straordinari o per scadenza del contratto d’affitto e conseguente sfratto).
 
Poi c’è il mondo di fuori: provate ad immaginare di avere un’attico spazioso e bene ammobiliato, con tutte le comodità e terrazzo a tetto, piante rampicanti e nani di terracotta (c’è gente a cui piacciono); metteteci dentro tutto quello che avete sempre desiderato, create la casa perfetta; ora mettetela in mezzo al nulla: in una landa desolata, in mezzo a una fitta foresta o in una città abbandonata del Far West, magari a fianco al vecchio Saloon, in cui nessuno mette più piede da un secolo. Voi, la vostra bella casa, la sabbia e i ruderi che marciscono. Vi piacerebbe ancora vivere lì? Non credo.
Questo per dire quanto importante per una persona sia l’ambiente in cui vive, quanto lo siano soprattutto le persone con cui lo condivide.
Ebbene non so le vostre, ma la mia anima, quando si sporge un po’ fuori del corpo e va alla ricerca di -come chiamarli?- spiriti affini, ha l’impressione di nuotare nella melassa. Non è difficile fare nuove conoscenze, intendiamoci, il mondo è pieno di gente simpatica. Tuttavia è addirittura ostico stringere un rapporto, superare il livello del fare due chiacchiere, costruire qualcosa con qualcuno/a perché semplicemente si intuisce che con quella persona si può, che ne vale la pena, che arricchirebbe tutti e due. Credo di sapere anche il perché: il problema è che non ci si fida che di se stessi, della propria metaforica schiena. A ognuno il suo, ognuno porta la sua croce e tendenzialmente non si arrischia a farsi aiutare dal primo Simone di Cirene che passa. Chissà che non ci lasci in braghe di tela a metà strada, proprio quando cominciavamo a sentirci un po’ sollevati…non sia mai! Piuttosto facciamo tutto da soli.
 
Negli ultimi tempi ho ascoltato attonito due dei miei più cari amici fare questo discorso: "Gli amici non te li scegli, capitano. Io non faccio niente per un’amicizia, tanto se deve crescere, cresce da sola, non abbiamo nessun controllo su di essa. Le persone vanno, le persone vengono, io prendo quello che capita".
Bene, è la più grande cazzata della Terra. E’ vero, non ci è dato sapere chi incontreremo sulla nostra strada, e non ci scegliamo le conoscenze, si conosce chi si incontra. Ma ognuno di noi ha il sacrosanto diritto di SCEGLIERSI GLI AMICI. E poi ha il conseguente dovere di LAVORARE sodo per costruirla, un’amicizia: perché pochissimi sono i casi in cui si costruisce da sola. Ti deve veramente andare di culo.
 
Mi piace pensare ai rapporti come a una rete di fili che ognuno tiene in mano. Dalle mani di tutti partono fili che arrivano nelle mani degli altri, un capo per uno. A seconda di quanto il rapporto è stretto, il filo è più o meno teso.
A parte quelli della mia famiglia, tengo in mano una decina di fili, non di più, particolarmente tesi. Le persone che stanno dall’altra parte le ho letteralmente prese al lazo: le ho conosciute, le ho apprezzate, le ho stimate. Poi ho preso la mira e ho lanciato il mio filo. Ora, sapete bene che un filo sta in tensione solo se è tirato da entrambi i capi, e che è difficilissimo tendere un filo male assicurato: di solito ti resta in mano (ogni tanto è successo); e qui sta il difficile, perché per me non è mai stato  problematico concedere la mia fiducia a qualcuno: è sempre stata un’impresa essere sicuro di avere la fiducia degli altri! Così sono andato avanti a tentoni, come si fa per saggiare una corda: ho tirato prima piano, poi un po’ più forte, nella speranza che chi era di là si accorgesse del guizzo del filo, e decidesse di stringere un po’. Ognuno naturalmente è libero di tendere i propri fili quanto vuole, e di fare delle scelte. La tensione finale del filo di solito è una buona media tra le intenzioni dei due, ma c’è sempre qualcuno che vorrebbe di più, e che continua a dare piccoli strattoni di avviso: "Ehi, guarda che questo filo tiene, guarda che lo sottovaluti, guarda che potresti chiedergli di più, guarda che io vorrei chiedergli di più!". Questo ruolo, questa condizione di pesce (un pesce folle, ok) che sta attaccato all’amo di un pescatore distratto e tira per farsi sentire filo finché quello non si ripiglia, si accorge di lui e lo tira su (veramente masochista questo pesce, lo ripeto), è la melassa in cui nuota l’anima, è  qualcosa di terribilmente sbagliato, perché è unilaterale. Ci credo che il pesce sembra folle, è un pesce ridotto così male da dover fare in modo che lo peschino: è un pescatore che a un certo punto diventa pesce, un paradosso. Finché può fa da solo, sceglie, prende la mira e lancia il suo filo; poi deve per forza farsi pesce perché dall’altra parte non viene un impegno simile, dall’altra parte c’è uno che non vuole quel filo (ne ho incontrati pochi) o uno troppo pigro per fare qualcosa (ne incontro continuamente). Questo è il motivo per cui alla fine i fili tesi sono pochi. Ma perché deve essere così? Perché bisogna che sia così difficile? Perché siamo diventati così diffidenti? Non so se vi è mai successo, ma credetemi è frustrante al massimo avere a che fare con qualcuno che si stima molto e a cui si è pronti a dare tutta la propria fiducia, e non riuscire a farsi dare la sua; "e che, non sono forse degno della tua fiducia?" Le risposte che uno può darsi sono due, una volta sicuri di aver dato il massimo: in tutta onestà e senza offesa, ma no non ne sei degno, non vai bene per me. Si può accettare e capire una risposta simile, è umana se non altro. Ma la seconda risposta possibile, quella mi spaventa: no io non do fiducia completa a nessuno. Questa è un classicone, è una risposta da manuale di chi è arrivato alla filosofia dell’ogni uomo è un’isola, e si sente circondato da persone se non ostili, almeno estranee.
La mia fatica è proprio accorgermi che ce ne sono tanti che tendono a pensarla così. Sebbene io non mi senta circondato da estranei, sono costretto a vivere come se lo fossi semplicemente perché gli altri vedono me come un estraneo. Volente o nolente, la società dice questo. Dice ognuno per sé. Dice: "No grazie Simone, faccio da me con questa croce", e non pensa che Simone forse aveva bisogno di portarla quella croce, ne aveva bisogno per sé, per non sentirsi un’isola.
Pubblicato in Pensieri | Lascia un commento

Freccette s.r.l.: Azienda specializzata in demolizioni Psicoemotive a domicilio…

Finalmente bivacco! Dopo mesi di lavoro sul gruppo, la nostra prima prova sul campo…

L’abbiamo preparato tanto, ci abbiamo messo tutto l’impegno possibile, abbiamo discusso, abbiamo ridiscusso, abbiamo concordato una formula di compromesso che andasse bene. Abbiamo messo in piedi delle signore attività, abbiamo cercato e trovato una signora località (non mi ricordavo che Framura fosse un posto così bello: panoramica sì, ma questa volta l’ho trovata evocativa!) e abbiamo aperto le iscrizioni.
Poi siamo partiti, per quello che avrebbe dovuto essere ed è stato il primo bivacco delle Freccette diverso dai nostri soliti finesettimana svacco a Monteleco. NEL COMPLESSO, UN SUCCESSO.
Non eravamo tanti, direi un numero giusto: ventitré. Devo dire che mi dispiace parecchio per quanti hanno deciso di stare a casa, e si sono persi il meglio che oggi il nostro gruppo può dare; d’altra parte mi rendo conto benissimo che quello che io considero il meglio, facilmente un altro può considerarlo il peggio, e anche che è stato proprio il numero contenuto a permetterci di lavorare così bene.
Il lavoro da fare in realtà era semplice: ventitré buste appese al muro, come le calze della Befana; una penna, tanto silenzio e ventidue foglietti a testa (mi domando ancora perché fossero di carta velina…), su cui scrivere una critica "costruttiva" per ciascuno degli altri partecipanti; una notte per macerarsi nella curiosità/timore di quello che avresti trovato nella tua busta. Poi, la mattina dopo, un’ora abbondante di deserto per aprire la propria busta e confrontarsi coi propri difetti: ora qui sta il succo della questione, perché si poteva fare in due modi. Si poteva arrivare belli corazzati a questo momento, e farsi scivolare le critiche addosso: si comprendevano, si soppesavano, si accettavano e poi ci si preparava a rispondere.
Oppure si poteva cercare di viverle: si poteva lasciarsi smontare, sentirle nella pancia invece che nel cuore. Più violento, forse più immediato, non so quanto più efficace o più giusto. Fatto sta chi io ho fatto così, e l’ho fatto apposta, perché era una cosa che non facevo più da tanto tanto tempo. Una sorta di esercizio e un test, per dimostrarmi che non sono quel cinico freddo che ultimamente mi sembra di essere, ma che sono ancora lo stesso di 9, 5, 3 anni fa, quello che non sa controllare le emozioni. Ha funzionato meravigliosamente…sono andato in pezzi.
Terza parte dell’opera la condivisione: ognuno interrogava una o più persone sulle loro critiche, chiedeva e dava chiarimenti, si confrontava col gruppo su quanto aveva letto e scritto. Anche qua abbiamo fatto centro, perché non ci sono state scene del tipo gente che si getta furente sui capelli della vicina urlando "Puttana!" o robe simili: molto civile, molto disteso e anzi sempre più disteso mano a mano che si andava avanti e scendeva la tensione, molto proficuo. Finalmente, costriamo qualcosa, mettiamo in piedi dei rapporti veri, e la cosa si tocca con mano.
Alla fine ci siamo messi a giocare al telefono senza fili, cosa che non facevo più da un secolo, e ci siamo divertiti come bambini alle giostre.
E siamo tornati a casa, tutti stanchi, ma credo quasi tutti soddisfatti. Spero che sia stato il primo di molti che verranno, e spero che tutti la pensino come me. A voi, amici, posso solo dire grazie, perché forse non lo sapete ma mi riempite la vita.
Epilogo: ho messo piede a casa alle sette di sera, minuto più minuto meno. Impegnato a raccogliere i miei pezzi, a cercare di rimettermi insieme. Del tutto senza difese. Guarda caso, mio padre ha scelto proprio ieri sera per litigare con me: forse aveva ragione, forse aveva torto, ma a prescindere dall’argomento (che pure per me è capitale) mi ha fatto un piacere. Ho scoperto che lì sotto lo strato di ghiaccio ci sono ancora io. Quello che sente forte, spesso troppo forte. Quello che si faceva male di niente, ma che si appassionava completamente, che si lasciava trasportare. Mio malgrado, ho pianto un’ora e mezza. C’è ancora speranza!
Pubblicato in Vita | Lascia un commento